MADE IN ITALY Attenzione alla corretta etichettatura dei prodotti

La Corte di Cassazione, Sez. Penale, ha recentemente affrontato lo spinoso tema del “Made in Italy” e della corretta etichettatura del “made in” sui prodotti.

Nel caso di specie, la Corte ha confermato il provvedimento di sequestro del materiale emesso dal Tribunale del riesame, specificando che l’indicazione “made in” non è essenziale al fine di integrare l’errata individuazione dell’origine italiana di un prodotto.

L’origine comune o “made in”.

Com’è noto, definire l’origine comune o “made in” è utile all’applicazione della politica commerciale comune dell’Unione europea (dazi antidumping, contingenti e sospensioni tariffarie)

L’origine comune va distinta dall’origine preferenziale che deve essere definita al fine di beneficiare di dazi ridotti o esenti in import export.

L’origine comune è legata al luogo di produzione del bene ed è individuata dalle norme unionali e dall’art. 60 del Codice dell’Unione, secondo il quale il Paese originario di un prodotto è quello in cui il prodotto è stato interamente ottenuto, oppure, se alla produzione contribuiscono due o più Paesi o territori, quel Paese o territorio in cui il prodotto ha subito l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata, effettuata presso un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o che abbia rappresentato una fase importante del progetto di fabbricazione.

Da ricordare che l’etichettatura dei prodotti relativamente al “made in” – salvo casistiche particolari da analizzare caso per caso come ad esempio per cosmetici e prodotti farmaceutici – non è generalmente obbligatoria e pertanto un’indicazione fallace può essere inutilmente pericolosa per l’importatore.

Il caso in esame della Corte

La vicenda su cui si è trovata a decidere la Suprema Corte riguarda l’importazione di una partita di tubi in gomma, prodotti da una società turca e importati da una società italiana, recanti la stampigliatura “Italy”.

A seguito di verifica all’importazione, all’importatore veniva contestata la violazione dell’art.517 c.p. che punisce l’immissione in commercio di prodotti industriali con indicazioni mendaci sull’origine, con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a ventimila euro.

La tutela del “Made in Italy” è disciplinata in Italia dall’art. 4 commi da 49 a 49 quater della Legge N. 350 del 2003 che prevede tre fattispecie sanzionabili, di cui due configurabili come reato e un’altra come illecito amministrativo, e precisamente:

1) La falsa indicazione dell’origine ovvero la stampigliatura del “Made in Italy” su prodotti e merci non originari dell'Italia ai sensi della normativa sull'origine (reato);

2) La fallace indicazione dell’origine, che consiste nell’apposizione, sia su prodotti privi di indicazioni di origine sia su prodotti su cui è indicata un’origine e provenienza estera, di segni, figure o quant’altro, tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana (reato);

3) La fallace indicazione dell’origine tramite l’uso del marchio da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana (contravvenzione).

Nel caso in esame la Suprema Corte nella sentenza N.23850/2022 ha confermato che la stampigliatura “Italy” impressa sui prodotti (tubi) presentati in dogana attraverso la dichiarazione doganale per l’immissione in libera pratica (che equivale a un’immissione in commercio) può indurre il consumatore a ritenere che la produzione di tali beni sia effettivamente avvenuta nel territorio italiano, quando al contrario i beni erano stati fabbricati in Turchia. E ciò anche se l’indicazione del Paese “Italy” non è preceduta dalla dicitura “Made in” poiché tale indicazione non avrebbe avuto altra ragione di essere apposta se non quella di ingannare i consumatori circa l’origine dei prodotti.